In Romagna fin dalla prima infanzia il bimbo veniva educato a
rispettare il pane. Non bisognava lasciare cadere per terra nemmeno una
briciola perché dopo la morte ognuno tornava con un cesto sfondo a raccattarle
una per una.Si raccomandava ai bambini di portarlo alla bocca con la mano
destra, che è la mano dell'angelo, e non con la sinistra, che è la mano del
diavolo! La donna che apparecchiava la
tavola non doveva mai dimenticare di mettervi il pane, perché avrebbe causato
la morte del capofamiglia. La tiera del pane non doveva mai essere posata
capovolta perché in tal modo avrebbe portato sfortuna.
La farina veniva conservata in una madia: la "matra", e la
vigilia del giorno in cui si doveva fare il pane se ne toglieva la quantità
occorrente che veniva ben setacciata. Nelle case dei benestanti invece del
setaccio si usava il "buratto", un cassone con più vagli e una
manovella che si teneva fra i mobili della cucina.
La farina poi si metteva in una apposita madietta, la
"matrena", in mezzo a cui si scavava una piccola buca dove si metteva
il lievito, "e furment", disciolto bene in in acqua tiepida e sale,
poi veniva ricoperto, con la farina fino a farne un piccolo cumulo, sul quale
la donna tracciava una croce dicendo: "Cress pan che Dì' ut e cmanda"
("cresci pane che Dio te lo comanda"). Lavoro questo che non poteva
essere fatto da una donna con le mestruazioni perché in tal caso la pasta non
sarebbe lievitata bene. La mattina dopo, di buon'ora, l'impasto veniva posto
sul tagliere per essere ben dimenato e impastato. Se la famiglia era numerosa
il pane doveva durare sette o otto giorni, allora per ben impastarlo occorreva
la "gramola" che di solito veniva azionata da un uomo. Quando
l'impasto era ben dimenato la donna procedeva alla confezione delle tiere, i
"tirùn" e, a volte, anche di pagnottelle abbinate a somiglianza di
due finocchi, dette per questo "fnuceli".
Aveva poi cura di trattenere un pezzo di impasto con cui formava una
pagnottella rotonda su cui segnava una croce e che doveva servire da fondo per
la prossima panificazione. Il pane così fatto doveva lievitare ed in caso di
freddo intenso si poneva accanto al focolare, a volte addirittura nel letto tra
le lenzuola riscaldate dal "prete".
Un tempo il raccolto del grano era assai scarso nelle campagne della
Romagna: 8-15 q. per ettaro, forse per l'uso di sementi non selezionate o per
l'aratura non profonda e la mancanza di una buona concimazione.
Nei primi anni di questo secolo il pane, specie in campagna, non era mai di farina ben setacciata, ma mista a "e runzol", il cruschello, e spesso si ricorreva perfino a farine di grano misto con quella di granoturco: la "farena d'amstura". A volte si confezionavano pagnotte con solo farina di granturco "la meca" o "e michin" che era considerato il pane dei poveri. Dice un proverbio: "o ad gran, o ad furmintòn, basta ch'a rimpesse e vantròn". Un tempo, specie nelle montagne, a volte le popolazioni erano costrette a mescolare la farina di grano con altre farine. Allora qualsiasi cereale, o frutto farinoso serviva a fare il pane: vecchi piselli, fave, ghiande, granoturco, sorgo, miglio, patate e... persino i tralci macinati della potatura delle viti.
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