martedì 25 ottobre 2016

IL PANE IN ROMAGNA


In Romagna fin dalla prima infanzia il bimbo veniva educato a rispettare il pane. Non bisognava lasciare cadere per terra nemmeno una briciola perché dopo la morte ognuno tornava con un cesto sfondo a raccattarle una per una.Si raccomandava ai bambini di portarlo alla bocca con la mano destra, che è la mano dell'angelo, e non con la sinistra, che è la mano del diavolo!  La donna che apparecchiava la tavola non doveva mai dimenticare di mettervi il pane, perché avrebbe causato la morte del capofamiglia. La tiera del pane non doveva mai essere posata capovolta perché in tal modo avrebbe portato sfortuna.
La farina veniva conservata in una madia: la "matra", e la vigilia del giorno in cui si doveva fare il pane se ne toglieva la quantità occorrente che veniva ben setacciata. Nelle case dei benestanti invece del setaccio si usava il "buratto", un cassone con più vagli e una manovella che si teneva fra i mobili della cucina.
La farina poi si metteva in una apposita madietta, la "matrena", in mezzo a cui si scavava una piccola buca dove si metteva il lievito, "e furment", disciolto bene in in acqua tiepida e sale, poi veniva ricoperto, con la farina fino a farne un piccolo cumulo, sul quale la donna tracciava una croce dicendo: "Cress pan che Dì' ut e cmanda" ("cresci pane che Dio te lo comanda"). Lavoro questo che non poteva essere fatto da una donna con le mestruazioni perché in tal caso la pasta non sarebbe lievitata bene. La mattina dopo, di buon'ora, l'impasto veniva posto sul tagliere per essere ben dimenato e impastato. Se la famiglia era numerosa il pane doveva durare sette o otto giorni, allora per ben impastarlo occorreva la "gramola" che di solito veniva azionata da un uomo. Quando l'impasto era ben dimenato la donna procedeva alla confezione delle tiere, i "tirùn" e, a volte, anche di pagnottelle abbinate a somiglianza di due finocchi, dette per questo "fnuceli".
Aveva poi cura di trattenere un pezzo di impasto con cui formava una pagnottella rotonda su cui segnava una croce e che doveva servire da fondo per la prossima panificazione. Il pane così fatto doveva lievitare ed in caso di freddo intenso si poneva accanto al focolare, a volte addirittura nel letto tra le lenzuola riscaldate dal "prete".
Un tempo il raccolto del grano era assai scarso nelle campagne della Romagna: 8-15 q. per ettaro, forse per l'uso di sementi non selezionate o per l'aratura non profonda e la mancanza di una buona concimazione.

Nei primi anni di questo secolo il pane, specie in campagna, non era mai di farina ben setacciata, ma mista a "e runzol", il cruschello, e spesso si ricorreva perfino a farine di grano misto con quella di granoturco: la "farena d'amstura". A volte si confezionavano pagnotte con solo farina di granturco "la meca" o "e michin" che era considerato il pane dei poveri. Dice un proverbio: "o ad gran, o ad furmintòn, basta ch'a rimpesse e vantròn". Un tempo, specie nelle montagne, a volte le popolazioni erano costrette a mescolare la farina di grano con altre farine. Allora qualsiasi cereale, o frutto farinoso serviva a fare il pane: vecchi piselli, fave, ghiande, granoturco, sorgo, miglio, patate e... persino i tralci macinati della potatura delle viti.
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