Il rapporto tra azienda e organizzazioni, da un lato, e design dall’altro, non si limita solo all’estrazione di bellezza e creatività: oggi le discipline del “design for behaviours”, “design for education, o ancora “design for maintenance” possono essere applicate alla vita aziendale e alla pubblica amministrazione, per favorirne uno sviluppo sostenibile, in linea con gli obiettivi dettati dall’ONU.
di Cabirio Cautela, Amministratore Delegato POLI.design
Ripensare il modo di fare impresa, di organizzare il lavoro e gli spazi. Ma anche ridefinire il modo di organizzare i servizi per le città e le comunità. Con queste capacità e attitudini, il design è entrato con decisione nei processi aziendali e sta entrando in quelli pubblici. Ma non solo. Il design può trasformarsi nel miglior alleato delle imprese per affrontare le sfide poste in atto dai Sustainable Development Goals (SDG) delle Nazioni Unite che impongono alle imprese scelte radicali sulla loro catena del valore, sulla trasformazione digitale del lavoro, sul legame con le comunità locali e sull’impronta ambientale. Una trasformazione che tutti i Paesi membri dell’ONU dovranno completare entro il 2030.
Il potenziale del design può finalmente essere sfruttato appieno a favore della sostenibilità, della digitalizzazione, dell’inclusione sociale e dell’organizzazione del lavoro. Un percorso che non può prescindere – e anzi deve partire – da un nuovo mindset di manager, imprenditori e organizzazioni pubbliche che passa attraverso una rinnovata apertura verso il mondo del design. Un approccio che deve essere diverso da quello degli anni ‘60, quando i designer venivano interpellati e coinvolti dalle imprese per la loro “creatività” e la capacità di estrarre bellezza: abilità che hanno segnato l’evoluzione della moda e dell’arredamento, e che senza dubbio hanno reso il made in Italy noto nel mondo. Oggi, però, il design è in grado di abbracciare uno spettro molto più ampio.
Ma dove il suo intervento è più potente e decisivo? Sicuramente in almeno 6 tra i 17 Sustainable Development Goals: good health & wellbeing (SDG 3), gender equality (SDG 5), affordable & clean energy (SDG 7), industry, innovation & infrastructure (SDG 9), sustainable cities & communities (SDG 11) e responsible consumption & production (SDG 12).
Il design a sostegno della salute e del benessere
Si parla spesso del “design” come se fosse un’unica entità, ma in realtà sotto a questo nome si nascondono una miriade di ramificazioni e specializzazioni, che sono nate e si sono evolute specialmente negli ultimi anni, per rispondere alle mutevoli esigenze delle persone e delle imprese. Per citarne uno, esiste oggi il “behavioural design” che studia come l’attivazione di nuovi comportamenti comporti la progettazione di nuove forme di ingaggio, un sistema informativo differente e un’educazione del mercato capace di creare nuove motivazioni soprattutto nelle nuove generazioni. Le applicazioni sono molteplici: dalla prevenzione nella medicina (si pensi ai dispositivi che monitorano lo stile di vita delle persone identificando i fattori di rischio sulla base dell’osservazione di bio-parametri) al mondo del lavoro, dove l’induzione di nuovi comportamenti può aiutare a migliorare il benessere dei dipendenti di un ufficio, ad esempio monitorando i lunghi momenti di sedentarietà ad una scrivania e lanciando dei segnali o delle notifiche per portare la persona a modificare questo comportamento con degli esercizi o con la cura di un’alimentazione ad hoc per vite caratterizzate da elevata staticità.
Il design per la parità di genere
Rispetto agli albori, i designer hanno l’opportunità, anche attraverso la propria capacità di visione e anticipazione, di contribuire alla riconfigurazione delle convenzioni comunicative e dei linguaggi in un’ottica di parità di genere, rispetto e valorizzazione delle differenze. Se un tempo i servizi erano pensati in maniera “piatta” e uniformata su un modello che troppo spesso era automaticamente maschile, oggi il design studia sempre più le diversificazioni di accesso a servizi e prodotti che dipendono dalle differenze di sesso, genere, cultura. Ma come? Basta pensare agli abitacoli delle macchine, principalmente progettati a partire da un’idea di fisico maschile. Un tema che si lega non solo al comfort della seduta ma anche alla sicurezza. Perché per testare la sicurezza delle macchine nei crash test si usano principalmente manichini con forme maschili. Partendo da questo spunto Volvo qualche anno fa ha studiato i dati di più di 40.000 incidenti reali che hanno coinvolto circa 70.000 persone. Da quello studio è partito il progetto E.V.A., che metteva in evidenza la fondamentale ineguaglianza nello sviluppo dei sistemi di sicurezza per le auto: dallo studio risultava evidente come le donne fossero esposte a rischi maggiori di subire lesioni in caso di incidente (le differenze anatomiche e di forza della muscolatura del collo che sono tipiche della donna e dell’uomo medio implicano che le donne abbiano una maggiore probabilità di subire traumi da colpo di frusta). Un problema che può essere risolto anche dai car designer, che possono pensare e sviluppare progetti in grado di ridurre queste disuguaglianze.
Il design per le città e le comunità sostenibili
Da sempre, e ancora di più negli ultimi anni, il design ragiona in termini “human-centric”, ovvero quel tipo di progettazione di servizi, prodotti e spazi in cui l’esperienza della persona sia centrale. Proprio per questo, il design può dare alle città una maggior capacità di “umanizzazione” di alcuni servizi pubblici che, purtroppo, spesso non sono sostenibili o efficaci per gli utenti. La riprogettazione dei servizi pubblici – in accordo spesso al ruolo “sovvertitore” del design rispetto ai paradigmi dominanti – non può che ripartire da un nuovo ruolo da attribuire agli utenti. In diversi casi infatti il “design dei servizi” pubblici può prevedere un ruolo attivo della cittadinanza, dando vita a comunità locali attraverso lo sviluppo di piattaforme partecipative in cui le persone possono co-progettare dei servizi di welfare – come ad esempio gli asili nido, comunità di supporto, gli orti comunitari, o ancora i gruppi di mutuo sostegno. In questo modo, attraverso il design, la città collabora con la propria comunità per creare innovazione sociale, sostenibilità, servizi green. A Milano un esempio di successo è NoLo, che ha visto una reale rivalutazione della comunità attraverso la progettazione del quartiere. In questo modo non solo crescono i servizi, ma anche la comunità locale.
Il design per industria, innovazione e infrastrutture, per un consumo e una produzione responsabili e green
Oggi siamo consapevoli che le implicazioni che la produzione di un bene può avere sull’ambiente debbano essere approcciate in fase di progettazione, perché quando inizia la produzione è troppo tardi per intervenire. In questo caso entra in campo la disciplina del “green o eco-design” che prevede la valutazione dei diversi impatti del prodotto lungo tutto il ciclo di vita utile del bene. Obiettivo principale dei green designer è la creazione di prodotti e progetti sviluppati nell’ottica della rigenerazione ambientale e delle sue forme di vita. Ridurre, riutilizzare e riciclare sono vecchie parole chiave che oggi si accompagnano ai principi della circolarità della produzione e dei modelli di business (si veda per esempio cosa sta accadendo nel mondo del food con casi come Too Good To Go - https://toogoodtogo.it/) . E proprio per questo, i designer, negli ultimi anni, sono stati formati con approcci innovativi che vanno dal “disassembling” (prodotti studiati per essere disassemblati in parti pienamente riciclabili) al “design for reuse” o “per la circolarità” (con cui si immagina in anticipo l’uso successivo di alcune componenti o del prodotto intero), o ancora al “design for attachment” (che serve a legare emotivamente gli utenti ai prodotti col fine ultimo di allungare la vita utile dei prodotti). Si va sempre più verso prodotti “ricondizionabili”, resettabili all’occorrente per una seconda o terza vita e tale opzione deve essere sempre più prevista nelle fasi di progetto iniziale.
Ma il cambio di passo non si limita alla sola gestione del prodotto: sono sempre di più, infatti, i designer che lavorano per aiutare le imprese nella loro transizione verso la “servitization” dell’economia, ovvero il passaggio verso l’offerta di soluzioni che coniugano asset tangibili e servizi complementari (come nel caso del car sharing per quello che riguarda l’automotive).
Quelli illustrati sono solo alcuni dei casi in cui il design può intervenire per velocizzare la transizione necessaria per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Molto è già stato fatto, ma la strada per attuare una trasformazione radicale è ancora lunga e il tempo, invece, non è tantissimo. Credo quindi che percorrere questa strada con professionisti, come i designer, capaci di destreggiarsi tra discipline tecniche e scientifiche, sociologiche e umanistiche possa rendere il percorso meno irto e complicato e offrire l’opportunità di arrivare alla meta un po’ più velocemente.