La mostra SALVIFICA. Il Sassoferrato e Nicola Samorì, tra rito e ferita permette di cogliere due artisti lontani nel tempo, Giovan Battista Salvi (Sassoferrato 1609-Roma 1685) e Nicola Samorì (Forlì, 1977), in un dialogo stringente, inedito e folgorante.
Entrambi sono accomunati da vari aspetti, a partire dall’attitudine quasi ossessiva alla “ri-scrittura” di temi e modelli che si traduce in una rielaborazione continua e vorticosa delle immagini, che si offrono quasi con impavida sfrontatezza a circuitare tempo e memoria visiva. Ad accomunare i due artisti interviene inoltre una sorta di dipendenza dalle forme e una forte volontà di indagine nei meandri della pittura.
Le 10 opere inedite del Sassoferrato permettono di tracciare una limpida costellazione dell’attività artistica del pittore. La sezione storica parte da due recenti scoperte di tele giovanili (un Amorino con chitarra e Tre putti e un tritone), eseguite quando ancora si trovava nella bottega romana del Domenichino, costituiscono un rarissimo esempio della sua formazione classicista.
Verranno esposte redazioni inedite e autografe dell’Addolorata, dell’Annunziata e del Salvator Mundi, iconografie che hanno determinato il successo dell’artista, spingendolo a una ossessiva ripetizione che non intaccò il suo mirabile talento esecutivo.
Saranno anche in mostra varianti mai pubblicate della famosa Madonna col Bambino dormiente e la ritrovata Madonna col Bambino e san Giovannino, la migliore versione tra quelle finora conosciute di un’invenzione tarda.
Si traccia in questo modo un coerente racconto dell’intero arco professionale del Sassoferrato e alcune opere, come la Vergine orante del manifesto, saranno poste a fianco delle intense interpretazioni eseguite per l’occasione da Nicola Samorì.
È nella serie La bocca (2022) che si concretizza il dialogo più stretto di Samorì con il Salvi, esemplificandosi quel concetto di “ripetizione differente” espresso tanto dall’uno quanto dall’altro artista. Se per il sentinate la reiterazione di una immagine devozionale, sacra, pia, corrisponde a un mantra spirituale e salvifico – appunto – per l’artista ravennate diventa un’occasione per mostrare la lenta e progressiva consunzione della materia, dell’immagine, dell’identità: la ferita invade lentamente lo spazio e ci insegna che l’arte non è più qualcosa di confortante ma anche un qualcosa di destabilizzante purché faccia riflettere.
Lucia (2019) è uno dei primi lavori che Samorì iniziava a realizzare attorno al geode. La santa offesa nello sguardo, Santa Lucia, qui mostra i segni evidenti del suo martirio. Il trauma si evidenzia tanto più ci si avvicina all’opera portando l’osservatore quasi ad uno sguardo interiore, alla scoperta di “cosa” abbia causato quel dramma. Samorì riesce a sconfinare dalla pittura alla scultura e viceversa, mostrandoci come dentro la voragine, dentro al buio, dentro al buco, ci sia possibilità di riscatto, di rinascita: il mistero della vita.
Anche nella scultura con Artaud (2021) Samorì sceglie di riferirsi a un personaggio emblematico del Novecento, il drammaturgo francese teorizzatore del Teatro della Crudeltà, dove anche qui crudeltà non significa tortura e dolore, ma al contrario catarsi. Samorì rende visibile tutto questo attraverso un corpo arcuato, sofferente, emaciato, che si sfalda sotto i colpi di un disagio fisico e psicologico, sempre più frequente e manifesto nella società contemporanea.
Altra scultura la Madonna del sasso (2022) rivela ancora il suo legame con l’antico, con suggestioni formali derivate da un bassorilievo del XV secolo, attribuito al Laurana. Anche qui la forma classica si sfalda, perde l’antica levigatezza per farsi scabrosa, bubbonica. Appare come se fosse realizzata con gli scarti delle opere che l’hanno preceduta. Una maternità anticlassica per eccellenza ma che ci suggerisce come anche dove non c’è bellezza ci possa essere amore e dolcezza.
La mostra sarà accompagnata da un catalogo con i testi dei curatori Federica Facchini e Massimo Pulini e le immagini di tutte le opere esposte.
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