LA MARGINALITA’ LORDA (EBITDA) DEL SETTORE DAL
5,2% DEL 2012 AL 6,2% DEL 2015
E’ quanto emerge da uno studio di Agrifood Monitor
sul settore lattiero caseario, con il contributo di
Nomisma e CRIF Ratings.
Parma, 12 aprile 2017-A
fronte della continua erosione dei consumi interni (volumi
in contrazione dell’11% nel periodo 2011-2016), la conquista
dei mercati esteri rappresenta oggi la più importante
opportunità di crescita delle vendite per i prodotti
lattiero-caseari italiani. E’ quanto emerge da uno studio di Agrifood
Monitor presentato oggi in occasione di CIBUS Connect.
Una sfida che
questi prodotti di eccellenza del Made in Italy stanno
vincendo, come dimostra un valore delle esportazioni
raddoppiato negli ultimi 10 anni (+92% nel periodo
2006-2016, contro il 72% delle esportazioni agroalimentari
totali).
Protagonisti
indiscussi sono i formaggi, che grazie ai 2,4 miliardi di
euro di vendite estere nel 2016, incidono per l’82% sul
valore totale dell’export lattiero-caseario, mostrando tassi
di crescita ancor più positivi, sia nel lungo periodo (+96%
nel 2006-2016), che nell’ultimo anno. “Con una variazione
superiore al 7% intercorsa tra il 2015 e il 2016, i
formaggi italiani mostrano un trend di crescita superiore
al totale delle esportazioni agroalimentari nazionali che
nello stesso periodo si sono fermate ad un +3,5%”,
dichiara Denis
Pantini, Direttore
dell’Area Agroalimentare di Nomisma. Non solo. “I formaggi italiani
registrano performance brillanti in un mercato mondiale
che, dopo anni di crescita sta mostrando alcuni segnali di
difficoltà, come dimostra la sostanziale stagnazione nei
valori degli scambi internazionali di prodotti caseari
registratasi nell’ultimo biennio”, aggiunge Pantini.
In questo
mercato, che vale complessivamente oltre 24 miliardi di
euro, il 72% è appannaggio dei TOP10 esportatori mondiali,
fra i quali l’Italia che, con una quota pari al 10%, figura
al quarto posto dopo Germania (14%), Olanda e Francia
(entrambe al 12%). Il nostro paese detiene la leadership di
prezzo (6,23 €/kg), con un netto distacco rispetto ai cugini
d’oltralpe (4,42 €/kg) e surclassando il prodotto tedesco
(2,81 €/kg).
Nel paniere
dell’export italiano sono infatti presenti alcuni dei
formaggi di punta della produzione italiana, fra cui le
grandi DOP.
I formaggi
italiani raggiungono tutti i principali mercati di
importazione mondiali; il nostro paese è il primo fornitore
di Francia e Stati Uniti (con quote rispettivamente pari al
30% ed al 24% del mercato), il terzo di Germania e Regno
Unito ed il quarto di Giappone e Spagna, mentre a seguito
dell’embargo alle importazioni dall’Unione Europea
dell’agosto del 2014, ha perso le proprie posizioni in
Russia, il cui principale fornitore è oggi la Bielorussia.
La vicinanza
geografica e la possibilità di libero scambio fa sì che la
principale destinazione estera dei formaggi italiani sia
l’Unione Europea (72% del valore dell’export italiano). Ma
accanto a mercati più tradizionali, sia europei che
extra-europei, se ne stanno affiancando di nuovi che,
sebbene ancora di piccole dimensioni, mostrano tassi di
crescita molto positivi; tra questi Romania e Polonia,
Norvegia, Svezia, Cina e Corea.
Le nostre
politiche commerciali devono però tener conto anche
dell’agguerrita concorrenza degli altri grandi esportatori
mondiali. Se si escludono gli Stati Uniti, nei quali i primi
5 partner commerciali detengono il 58% del valore del
mercato, nel caso di Germania, Francia, Regno Unito,
Giappone e Spagna questa quota sale, oscillando fra il 72% e
l’86%, mentre in Russia addirittura il 93% dei formaggi
importati proviene dai soli primi tre fornitori.
Vi sono paesi
come gli Stati Uniti con un valore 2016 del mercato
all’importazione di 1,2 miliardi di euro, in vivace crescita
(+32% a valore nel 2016/2013), in cui il nostro paese è
leader sia per volumi di vendite (17%) che per il prezzo
(8,2 €/kg) con un netto distacco dagli altri competitor e
con performance positive (+19%).
I mercati
europei più tradizionali viceversa offrono una prospettiva
più stazionaria se non addirittura flettente. E’ questo il
caso del Regno Unito che ha importato 1,6 miliardi di
formaggi nel 2016, in flessione del 7% rispetto al 2013, nel
quale l’Italia ancora una volta riesce a tenere grazie ad
un’offerta di qualità (5,7 €/kg) e mostra, contrariamente
alla dinamica generale, un andamento positivo (+11% a valore
nel 2016/2013). Contrariamente, nelle fasce di prezzo più
basse si avvertono i maggiori segnali di difficoltà e la
competizione sta premiando degli outsider come la Polonia
rispetto agli altri consolidati partner comunitari come
Irlanda, Francia e Germania.
Infine un
ultimo esempio è quello dei mercati emergenti, fra i quelli
i più rappresentativi sono quelli asiatici. Emblematico è il
caso cinese, che pur essendo ancora di piccole dimensioni
(circa 380 milioni di euro nel 2016), mostra tassi di
crescita vertiginosi e pari al +118% nel periodo 2016/2013 e
quindi offre prospettive molto allettanti.
Anche i
prodotti statunitensi ed europei si stanno però affacciando
su questo mercato, sebbene per ora con dimensioni ridotte e
in forte concorrenza gli uni con gli altri. Il prodotto
italiano cresce (+96% nel 2016/2013), ma non viene ancora
fortemente riconosciuto per la sua superiore qualità; in
queste condizioni l’affermazione sul mercato si gioca più
sulle capacità organizzative e sullo sviluppo di una
politica di promozione adeguata; strumenti senz’altro più
affilati nella mani dei nostri concorrenti come dimostra il
caso della Francia che non solo sta crescendo più
rapidamente (+133%), ma è riuscita a collocare il proprio
prodotto su fasce di prezzo più remunerative (5,4 €/kg
rispetto ai 4,6 €/kg del prodotto italiano).
Spinto dai
formaggi, l’export italiano di prodotti lattiero caseari è
cresciuto costantemente negli ultimi anni, compensando il
parallelo calo dei consumi interni. Come questi trend
abbiano impattato sulle performance economiche e finanziarie
delle imprese del settore emerge da un’analisi condotta sui
bilanci di 256 società di capitali e cooperative,
rappresentative del 75% dell’intero fatturato del settore
lattiero caseario italiano. L’analisi conferma come le
difficoltà del mercato interno si ripercuotano sui ricavi
aggregati del settore, in leggero calo tra il 2012 e il 2015
(tasso di variazione media annua del -0,8%).
Dietro questo
trend generale si nascondono però dinamiche molto
differenti. In termini di mercato geografico servito
anzitutto, con il mercato nazionale che arretra e le vendite
oltre confine che continuano ad aumentare. Ma è altrettanto
rilevante lo spostamento delle vendite tra segmenti
merceologici a beneficio di prodotti e referenze che
intercettano i nuovi bisogni “salutistici” del consumatore
(bevande vegetali, biologico, a ridotto contenuto di grassi,
ecc.)”,
“Queste tendenze del
mercato hanno consentito di migliorare marginalità e
sostenibilità finanziaria anche in un contesto di
complessiva riduzione delle vendite. La marginalità lorda
(Ebitda) del complessivo settore è passata dal 5,2% del
2012 al 6,2% del 2015, mentre la leva finanziaria
(misurata come rapporto tra debito finanziario lordo ed
Ebitda) è passata da 4,6x a 4,2x”, dichiara Paolo Bono, Associate presso CRIF
Ratings.
Lo spostamento
delle vendite dall’Italia all’estero e tra categorie di
prodotti sembra quindi aver favorito un complessivo
miglioramento sul fronte della marginalità e della
rischiosità finanziaria. “Seguire gli attuali
trend di mercato non è banale ed impone alle imprese forti
investimenti. Non tutte le imprese lattiero casearie hanno
intrapreso un percorso di riconfigurazione del business
coerente con le evoluzioni del mercato. E la differenza
tra quelle che stanno provando a farlo e quelle che
restano ferme, è netta”, continua Bono.
Il campione
settoriale è stato segmentato in base alla propensione agli
investimenti delle imprese. Considerato che gli investimenti
mediamente realizzati dalle imprese del campione ammontano
al 2,4% del fatturato tra il 2012 e il 2015, il campione è
stato diviso in due gruppi: le imprese che hanno investito
più della media (2,4% del fatturato) e quelle che al
contrario hanno investito meno della media (2,4% del
fatturato).
Chiarito che
tra i due gruppi non esistono differenze in termini di
fatturato medio aziendale (44 mln € per un gruppo; 45 mln €
per l’altro), le imprese lattiero-casearie più propense ad
investire rilevano risultati sensibilmente migliori.
Crescono i ricavi (+3% annuo) anzitutto, mentre gli stessi
scendono (-0,8% annuo) per l’intero settore e in maniera
molto pronunciata (-3,7% annuo) per che investe meno della
media.
Anche i
margini beneficiano degli investimenti. Tra il 2012 e il
2015 l’Ebitda margin cresce di 1,4 punti percentuali (dal
6,3% al 7,7%) per le imprese che investono di più. Nello
stesso periodo lo stesso indicatore è cresciuto in maniera
molto più modesta nel gruppo di imprese che investe di meno
(dal 4,4% al 4,9%).
Gli
investimenti premiano anche l’equilibrio finanziario. Chi
investe di più ha un ritorno in termini di marginalità che
compensa ampiamente le uscite finanziare assorbite dagli
investimenti. Il risultato è una leva finanziaria (debito
finanziario lordo / Ebitda) stabile e in lieve riduzione nel
periodo in osservazione (3,9x nel 2012, 3,8x nel 2013, 3,7x
nel 2014 e nel 2015). Complessivamente, tra il 2012 e il
2015 la leva si riduce anche per le imprese meno propense ad
investire ma in tal caso è molto più volatile negli anni
(5,2x nel 2012, 6,2x nel 2013, 5,6x nel 2014, 4,8x nel 2015)
probabilmente perché i margini operativi sono molto più
sensibili alla congiuntura economica.
L’analisi
mette in evidenza anche l’esigenza di finanziare gli
investimenti con un mix di risorse proprie e indebitamento
finanziario. A quest’ultimo proposito, particolarmente
importante è la capacità di consolidare il debito passando
da quello a breve termine a forme di finanziamento a
medio-lungo che consentano di “aspettare” i ritorni degli
investimenti. I risultati dell’analisi mostrano come le
imprese lattiero casearie più propense ad investire (chi
investe mediamente più del 2,4% del fatturato) si siano
mosse bene anche su questo fronte: la quota di debito a
medio-lungo sul totale dei debiti finanziari è passata dal
40% del 2012 al 54% del 2015, un risultato ottenuto tramite
rinegoziazioni del debito con il sistema finanziario
(approfittando anche del regime di bassi tassi di interesse)
ma anche accesso a nuove forme di finanziamento a lungo come
lo strumento obbligazionario, il cui peso sul totale dei
debiti finanziari è passato dallo 0,7% del 2012 al 3,9% del
2015.
Ufficio stampa Nomismaufficiostampa@nomisma.it
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