La performance Simon Magus di Marianne Heier prende origine dal monumentale affresco La caduta di Simon Magus che il pittore manierista Giovanni Paolo Lomazzo realizzò nel 1571 nella Chiesa di San Marco a Milano, prima di perdere la vista.
Nato in Palestina attorno all’anno zero, Simon Magus è sempre stato descritto come una forza del male, ma le narrazioni attorno alla sua figura sono spesso annebbiate e fantastiche, e le sue tracce si trovano sia nella letteratura religiosa sia nel racconto popolare.
Lomazzo lo affresca in modo originale e significativo rispetto alle iconografie tradizionali che vogliono il mago in procinto di cadere. In San Marco egli sembra quasi lievitare nell’aria. L’atto della caduta o del volo del dannato – uno stato di sospensione e possibilità – diventa una potente metafora critica del presente.
Mescolando fonti che dalla Bibbia portano ai Talking Heads, attraverso Esiodo, il Libro egiziano dei morti, Slavoj Žižek, Paul Celan, Lomazzo stesso e molte altre citazioni da testi e autori lungo i secoli, Marianne Heier performa un monologo diviso in dieci capitoli.
Ogni capitolo è una tappa o stazione lungo il percorso che dalla galleria Milano porta alla Chiesa di San Marco, terminando di fronte all’affresco che ne costituisce l’origine e la scenografia. L’artista conduce a piedi il pubblico come una guida, parlando, leggendo, cantando e sfidandolo attivamente lungo la strada, unendo diversi registri espressivi tra il tragico, il comico, la riflessione, il gioco, il sentimento e la sorpresa.
Partendo dallo stato di potenzialità tra caduta e volo che la figura di Simon Magus rivela nell’affresco del Lomazzo, il monologo interroga la capacità umana di pensare forme non ancora esistenti, la visionarietà che porta a sconfessare le strutture esistenti, il potenziale politico dell’immaginazione che si fa costruttrice di nuovi mondi e nuove azioni, aprendo stanze inaspettate, scenari alternativi, mettendo di fronte alla responsabilità delle scelte.
L’eredità culturale nel lavoro performativo di Marianne Heier è il patrimonio da sottrarre a una contemplazione passiva di una presunta “bellezza” risolta nel visibile, per sondarlo invece come segno parlante, pieno di possibilità non ancora espresse che possano nutrire il presente, in un mondo plurale e mutante. L’atto della sua profanazione, nei termini di Giorgio Agamben, restituisce l’eredità della storia dell’arte all’uso comune.
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