La bellezza in un grande concerto teatrale Vittorio Albani kind of Miles chiude idealmente la trilogia prodotta dal Teatro Stabile di Bolzano che ha visto Paolo Fresu protagonista di Tempo di Chet (spettacolo dedicato alla figura del trombettista californiano Chet Baker), Tango Macondo (progetto sulla letteratura onirica sudamericana tra la Sardegna e l’Argentina) con un lavoro musicale e teatrale capace di disegnare il mondo creativo e visionario dell’immenso trombettista di statunitense nato nel 1926. I musicisti in scena collaborano da sempre con Fresu, ne condividono i palcoscenici e sono partecipi alla scrittura collettiva intessuta di ampi spazi di improvvisazione misti ad interpretazioni di cover mutuate dal repertorio davisiano. Sul palcoscenico due formazioni capaci di attraversare la storia musicale di Davis passando dalle prime registrazioni per la nobile Dial assieme a Charlie Parker ai gruppi con Sonny Rollins e John Coltrane fino alle produzioni con Gil Evans, al quintetto stellare con Wayne Shorter e Herbie Hancock e agli anni Ottanta con la musica elettrica e binaria. Il cielo e terra si incontrano, con l’ausilio di materiale storico, soluzioni sceniche e nuove tecnologie inserite in una speciale scatola teatrale per l’attenta regia di Andrea Bernard. Il tutto per quello che è in ultima analisi un “grande concerto teatrale” per far incontrare i jazzofili e gli appassionati del teatro. Il materiale musicale preparato per l’occasione verte principalmente su cinque estetiche legate al suono oltre che alla temporalità, viaggiando fra standard che hanno fatto la storia del jazz e scelte originali composte dalla formazione, passando da Porgy and Bess di George Gershwin a Birth of the Cool, da Jack Johnson allo storico album della “svolta elettrica” Bitches Brew e abbracciando anche il mondo pop armonico di Time after Time contrapponendolo alla pura improvvisazione propria della libertà jazzistica. “Senza Miles la musica oggi sarebbe sicuramente diversa” dice Fresu in una recente intervista parlando poi anche delle “rughe profonde che solcano il suo viso e le sue mani e dei suoi occhi profondi che inchiodano lo sguardo e toccano il cuore”. Le stesse fotografate dal maestro Irving Penn per la copertina e le immagini a corredo di Tutu del 1986 (disco dedicato al famoso arcivescovo sudafricano oppositore dell’apartheid e in origine pensato in collaborazione con Prince) capaci di comunicare immediatamente il senso di bellezza totale che ha sempre accompagnato la storia di questo incredibile musicista. MILES DAVIS di Vittorio Albani tratto da “La storia del Jazz in 50 ritratti” – Centauria Editore, 2021 Che si parli di be-bop, di cool, di hard, di jazz modale, di jazz elettrico o di grandi contaminazioni con l’universo pop, il suo nome non solo è sempre sistematicamente presente ma, in quasi tutti i casi citati, viene indicato come quello del geniale innovatore che ha creato, o quantomeno fortemente influenzato, quei movimenti. Gli stessi che hanno segnato la storia della musica jazz, e che hanno permesso lo sviluppo e il successo della musica afroamericana per eccellenza. Nel 2006 il suo nome è entrato di diritto addirittura nella Rock and Roll Hall of Fame al pari di Beatles o Bob Dylan.
Considerare Miles Davis un autentico genio è addirittura notazione superflua o sminuente. E può anche essere retorico affermare come la sua figura artistica sia una di quelle che hanno segnato la storia tutta della musica moderna. Ma è la pura verità. Chi lo conobbe da una platea o ad una presentazione discografica lo ricorda come una persona scontrosa e asociale. Chi lo conobbe personalmente parla invece di una persona matura, posata, gentile anche se insicura, e forse per questo molto diretta. Virtuoso del non virtuoso, nel corso di una carriera unica è riuscito a snocciolare l’intera enciclopedia dell’«esecuzione totale», portando spesso la materia jazzistica oltre i limiti, dando nobiltà alle pause e ai silenzi o utilizzando la famosa «nota fantasma» che soltanto un creativo inventore può giungere a proferire. Riuscì come nessun altro ad evitare le classiche etichette e classificazioni, utilizzando sempre e comunque elementi stilistici differenti e da tutti ritenuti incompatibili gli uni con gli altri. La sua sonorità, in capolavori assoluti quali il modale Kind of Blue (uscito nel 1959 e per molti il miglior disco di jazz mai pubblicato) come in quelli successivi alla celebre «svolta elettrica» di In a silent way (1969) e Bitches Brew (1970), è un marchio di fabbrica unico e forse irripetibile. Sia per lo stile trombettistico puro, singolare e personalissimo, che per quello indiretto del suono elettrico filtrato, o anche per l’uso della sordina. Velato e incisivo, audace e vigoroso. Come il blues che ha sempre permeato la sua anima e non lo ha mai abbandonato. Nelle sue tante formazioni (spesso autentici laboratori di ricerca) sono passati quasi tutti i protagonisti del jazz moderno. «Per me la musica e la vita sono una questione di stile», disse a Quincy Troupe. Non serva altro. |
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