Lavori di gruppo, didattica
sociale
e una forte regia
pedagogica: quella dell’insegnante
Trento, 26 ottobre 2017 – “Mattia
è molto agitato e disturba nell'ora d'inglese”. “Mattia non ha eseguito il lavoro, pertanto lo farà a casa. Mentre
scrivevo questa comunicazione ha lanciato gli occhiali che si sono rotti. Ai
compagni ha detto che avrebbe fatto ricadere la colpa su di me!".
"Mattia si permette di fare lo
spiritoso mentre si lavora facendo perdere tempo a me e a sé stesso". Sono
alcuni esempi di note scolastiche raccolti
da Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro psicopedagogico per
l'educazione e la gestione dei conflitti, da cui emerge una difficoltà dei
docenti di cogliere il pensiero infantile nella sua peculiarità. Mentre le neuroscienze
confermano la differenza profonda fra cervello infantile, cervello
adolescenziale e quello adulto, il mondo educativo non sembra tenerne conto,
dominato dall’idea della normalità, vista come equiparazione all’età adulta: i
bambini funzionano se si comportano come adulti. A un certo punto il tutto si
salda e l’immaturità evolutiva – naturale, fisiologica, che li porta a comportamenti
apparentemente insensati, ma quasi sempre compatibili con la loro età acerba –
viene confusa con delle “malattie”. Gli esempi delle diagnosi parlano chiaro. Secondo
i dati Istat negli ultimi anni sono quadruplicati i Dsa (Disturbi specifici di
apprendimento), sono raddoppiate le
certificazioni di disabilità (legge 104), e da ultimi sono dilagati i cosiddetti Bes (Bisogni educativi speciali). Il risultato finale? In una classe
elementare italiana un bambino su 4 è in media portatore di una diagnosi
attinente a un deficit specifico. E se da un lato questo trend può essere riconosciuto come positivo, per effetto del fatto che ora finalmente si parla di questi disturbi e gli
insegnanti e le famiglie li riconoscono e li gestiscono più facilmente,
dall’altro varrebbe la pena capire che la vera emergenza è
anche la disattenzione crescente nei
confronti dell’educazione.
È fondamentale riuscire a restituire a genitori e
insegnanti potere, funzione e responsabilità. Perché etichettare i figli e conseguentemente
medicalizzarli è una pratica oggi sempre più diffusa. Ma è anche rischiosa.
“Prima di psichiatrizzare una generazione
di figli il buon senso dice di verificare se i basilari educativi sono presenti
o se viceversa la confusione pedagogica negli adulti crea disturbi e scompensi
nei più piccoli. È importante saper mettere in dubbio che il difetto possa
essere anche in chi educa, non esclusivamente in chi è educato. Messe insieme
l’incapacità d’interpretarsi in senso educativo e l’alienazione infantile nei
confronti del gioco, della motricità e della natura, si capisce come le
difficoltà emotive non appartengano a motivazioni neurologiche, ma prevalentemente
a situazioni ambientali dove l’innaturalità della vita impedisce anche il
recupero di eventuali ritardi. Ecco perché si può curare con l’educazione”,
dichiara Daniele Novara che sarà tra
i relatori del Convegno
internazionale “La Qualità dell’inclusione scolastica e sociale” organizzato
dal Centro Studi Erickson in programma al Palacongressi di
Rimini dal 3 al 5 novembre per l’undicesima edizione.
È necessario poter
offrire ai ragazzi un’alternativa. Gli adulti, insegnanti o genitori che siano,
devono affrontare una svolta di coraggio
educativo per portare un contributo decisivo, tappa per tappa, alla
crescita dei bambini. Ecco perché è
necessario puntare sull’educazione. “E
poi c’è la scuola, una seconda famiglia, che
ha rinunciato anch’essa all’educazione, preferendo - di fronte a disturbi
quali vivacità, scarsa concentrazione, aggressività, disinteresse – la strada dei controlli neuropsichiatrici affidata
a specialisti, piuttosto che quella di applicare gli specifici strumenti
educativi che dovrebbero esserle propri. In questo modo la scuola si
sottrae alla propria vocazione diventando totalmente subalterna al sistema
medico sanitario”, prosegue Novara, che
affronta questi temi nel suo ultimo libro “Non
è colpa dei bambini” (Rizzoli).
Ma una scuola seria, che
funziona, viceversa deve saper trovare dei dispositivi pedagogici e fungere da
“regista” di un cast composto dalla famiglia, dagli insegnanti, da pedagogisti e
specialisti che lavorano con i bambini. Devono esistere filtri tra
l’individuazione del bambino che disturba o è problematico e l’invio ai servizi
di neuropsichiatria. Il lavoro sui
basilari educativi permetterebbe infatti di recuperare i bambini e i loro
genitori. Una scuola che ai
nostri giorni voglia puntare sulla
qualità e sull’innovazione non può prescindere da un lavoro orientato prima di
tutto a costruire coesione educativa tra gli adulti, ripartendo dalle
esigenze dei bambini per fare in modo che l’educazione sia ben organizzata e
rispettosa della loro crescita.
Occorre recuperare la
maieutica, l’arte di tirar fuori:
mettersi in una prospettiva che non pretende di risolvere o guarire o
eliminare, ma di far emergere le capacità, attivare, aiutare le persone a
imparare quanto sono in grado di imparare, a qualsiasi età. Aiutare allo stesso
tempo gli adulti a rimuovere le proprie carenze educative consente di uscire
dal tunnel della patologizzazione.
Per fare tutto questo
serve un cambio di rotta: la scuola si è sempre più orientata a una didattica
individualistica con programmi il più possibile parcellizzati alunno per alunno,
mentre l’apprendimento – secondo Novara
- è un’esperienza anzitutto sociale, dove l’interazione con gli altri e il fare gruppo rappresentano
l’elemento prioritario. E anche la normativa si allontana da queste pratiche sottraendo
al gruppo classe ogni legittima competenza in fatto di apprendimento. Come ben
racconta il professor Novara nel libro “Con
gli altri imparo” edito dal Centro Studi Erickson, l’imitazione sociale è da sempre la strategia che il genere umano
privilegia per imparare rapidamente ed efficacemente. Ecco allora tre importati suggerimenti da applicare in
classe per andare verso una vera inclusione:
1. I bambini imparano tra di loro, meno dagli adulti.
«Ho continuato a spiegare quel concetto ma non gli entrava in testa
assolutamente, poi ho chiesto di fare un esercizio, divisi in gruppi di tre o
in coppia. Quelli che avevano capito spiegavano agli altri più semplicemente di
come facevo io e ottenevano migliori risultati». La lezione frontale resta
il metodo meno efficace da utilizzare nell’insegnamento, sia perché i tempi di
concentrazione sono molto limitati, sia perché la distanza cognitiva fra
l’adulto e il bambino è molto elevata. Sono invece i lavori di gruppo che danno
maggiori risultati. Più i bambini sono impegnati nel lavoro e più tutti vengono
coinvolti.
2. La didattica sociale è meglio di quella speciale.
“Quando faccio preparare le lezioni dal gruppo, così come quando assegno
delle ricerche collettive da svolgere a casa mi rendo conto che gli studenti
sono più coinvolti. Attivare processi di ricerca e problematizzazione dà loro
la spinta a mettersi in gioco, a contribuire al lavoro”. Una didattica centrata
sulle attività di gruppo, sulla continua interazione fra compagni consente una
maggior efficacia nei risultati in quanto produce un effetto full immersion,
dove il lavoro è continuo, e l’esperienza, attiva e diretta, prevale sul puro e
semplice ascolto dell’insegnante.
3. La capacità di gestire il gruppo classe è un basilare
della professionalità del docente.
“Una volta il ‘domatore’ andava per la maggiore. I tempi sono cambiati e
se non ci si vuole ritrovare tutti i giorni a discutere con i genitori, è bene
rinfrescare la propria competenza di gestione del gruppo classe”. È ora di cambiare modello
di scuola. In questa prospettiva l’insegnante predispone piuttosto che disporre
pedissequamente ogni singolo passaggio. Il ruolo di regia consente di creare
situazioni di esperienze dove gli alunni si muovono con libertà alla ricerca di
soluzioni e risposte autonome. La regia pedagogica vuol dire far lavorare gli
alunni in una logica sociale, accettare maggiormente i loro errori come
necessità evolutiva piuttosto che come semplice sbaglio.
“Si deve recuperare il senso vero dell’educare, tracciando
una linea netta tra malattia e cattiva educazione, per ridare ai bambini la
scuola, e la società, di cui hanno bisogno. E la scuola può essere protagonista
di questo cambiamento”. conclude Novara.
Tutte queste tematiche verranno
discusse in occasione del Convegno “La qualità dell’inclusione
scolastica e sociale” organizzato dal Centro Studi Erickson al
Palacongressi di Rimini i prossimi 3, 4 e 5 novembre. L’appuntamento specifico è il seguente:
Q Talk | Venerdì 3 novembre | 14.30-16.30
L'educazione è la cura | Relatore: Daniele
Novara
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