Mimmo
Scognamiglio Artecontemporanea presenta un nuovo progetto espositivo
ideato e curato da Antonio D’Amico, storico e critico d’arte, che pone
l’attenzione sulle molteplici possibilità di guardare la realtà, innescando atteggiamenti che dall’oggettivo sfociano verso visioni interpretative. Si tratta di un processo intrigante e creativo di grande suggestione che viene indagato dai tre artisti coinvolti, Keith Edmier, Joana Vasconcelos e Chiharu Shiota, per i quali la realtà è “una
finestra dalla quale si affacciano per guardare ciò che li circonda e
per catturare immagini da soggettare a pensieri della mente, che
traducono in forme dove la fonte d’ispirazione rimane saldamente
riconoscibile”. Emergono così opere che se per certi versi mostrano una mimesi della
realtà, per altri la rivestono di uno strato intimo e soggettivo,
consegnando allo spettatore una visione specchiante, una sorta di
torsione personale del reale. Questo processo creativo trova le sue
radici filosofiche in Platone, il quale parla di “rispecchiamento” della
realtà, ossia di un’azione che non equivale a una perfetta riproduzione
del reale, bensì alla restituzione di un’immagine che deve soltanto
suggerire la sua fonte di partenza.
Attraverso uno studio dell’arte ottocentesca a Lisbona, Joana Vasconcelos incentiva
uno stretto dialogo con la storia e si appropria dell’immagine di un
gruppo di animali in ceramica, sopra i quali stende una coltre magica
che proviene dalla tradizione popolare di merlettaie che dal Portogallo e
dal mondo inviano all’artista centrini realizzati all’uncinetto,
facendoli diventare uno schermo, una protezione sotto ai quali vivono i
suoi animali che ci guardano silenziosi.
La memoria di un ricordo, di uno sguardo, viene bloccato da Chiharu Shiota
nel tempo e nello spazio attraverso una ragnatela di fili rossi, con
una visione onirica che rimanda al sogno e all’introspezione. L’artista
giapponese esegue diari scultorei metafisici, i cui oggetti intrappolati
non ci sveleranno mai i segreti e i pensieri sopraggiunti in un istante
creativo, bensì ci consegna un rebus del quale ciascuno potrà
appropriarsi e risolvere con la propria esperienza di vita.
Quello di Keith Edmier
è uno sguardo attento sulla storia dell’arte del Seicento, in cui regna
sovrana la riproduzione del reale, la mimesi di ciò che risiede in
natura. Edmier catalizza la sua attenzione sui fiori dipinti da
Caravaggio o da Carlo Dolci e non solo, facendoli rivivere nell’oggi e concedendo loro una seconda vita tridimensionale che ruota nello spazio.
Dinanzi
ai fiori scultorei di Edmier che hanno la loro radice nella storia,
agli animali “vestiti” di Vasconcelos che preservano la memoria della
tradizione e alle scatole magiche di Shiota che svelano pensieri intimi e
reconditi, lo spettatore potrà muoversi tra gli spazi della galleria di
Mimmo Scognamiglio come in un giardino misterioso e fascinoso, popolato
da forme e figure che attraggono la nostra attenzione in un continuo
gioco di domande, alla ricerca di punti d’attracco con la realtà.
Che fine ha fatto il cagnolino di mia nonna,
è il titolo della mostra che risuona come un interrogativo a cui per
primo il curatore si sottopone. Si tratta di una domanda che
apparentemente può essere legata ai ricordi d’infanzia ma che va ben
oltre, in quanto nasconde il tentativo di ribaltare il quesito,
scaturito da un episodio lontano nel tempo, in un collegamento con la
pratica sperimentata da alcuni artisti, capaci di generare nuove idee e
forme, partendo da ciò che catalizza i loro sguardi e i loro pensieri.
Infatti, Keith Edmier, Joana Vasconcelos e Chiharu Shiota, procedono
nel loro lavoro per “rispecchiamento” e rielaborazione di figure reali,
presentate sotto forma di pensieri, idee, riferimenti misteriosi e
affascinanti fisionomie.
“Quando ero piccolo - racconta D’Amico - mia
nonna aveva in campagna un cagnolino dispettoso che faceva la pipì sui
fiori e per disperazione lei li rivestiva con sacchetti di plastica
colorati e bucherellati per far vivere e respirare le sue meravigliose
creature. Quel cagnolino era così dispettoso però che guardando la nuova
“pianta” creata da mia nonna, più grande e ancor più colorata, si
divertiva a smuoverla con la zampa e ad abbaiargli contro, forse perché
non riconosceva più la sua fonte di attrazione e soprattutto
probabilmente aveva capito che sotto si nascondeva il suo desiderio. Che
fine ha fatto il cagnolino di mia nonna? Molte volte mi sono chiesto
come mai non faceva più la pipì sulla grande e attraente forma di
plastica, ai miei occhi ancor più attraente della pianta, ma si fermava
soltanto a guardarla con sospetto. Una risposta non sono mai riuscito a
darmela e a ripensarci bene non saprei darla neanche adesso, forse.
Però, un collegamento con l’arte potrei suggerirlo perché alcuni artisti
si comportano allo stesso modo di quel cagnolino. Anzi, prendendo
spunto dalla fonte di partenza, se ne servono per riproporla con nuove
sembianze. La pianta custodita sotto la forma creata da mia nonna rimane
pur sempre viva ma nascosta, celata alla vista di quel cagnolino che
però rimane a fissarla e a farne memoria, anche se adesso vede qualcosa
di diverso. Proprio come accade con molte opere d’arte! Gli artisti si
fermano a guardare il dato oggettivo con insistenza e applicano
un’evasione mentale e creativa per comportarsi come quel cagnolino”.
Nel
mutato atteggiamento del cagnolino dispettoso nei confronti delle nuove
forme assunte dalle piante, D’Amico individua la persistenza di
un’attrazione che si trasforma da semplice ispirazione a immagine
soggettiva e dunque opera d’arte.
In
mostra dunque, tre punti di vista che racchiudono un mondo magico e che
si alternano negli spazi della galleria, innescando nuove relazioni tra
arte e ciò che ci circonda, pur consentendo a ciascuno di riconoscere
la memoria di ciò che è fuori, là negli spazi della vita.
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