La
Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, nella sede del rinascimentale
Palazzo Bisaccioni nel centro storico di Jesi, continua la sua attività
espositiva e, dopo la mostra della passata stagione sull’arte povera,
presenta l’esposizione La Scuola di San Lorenzo. Una factory romana che
riunisce idealmente quel gruppo di artisti che nella Roma degli anni ’80
occuparono le stanze abbandonate dell’ex pastificio Cerere con i
loro ateliers, donando nuova linfa vitale al caseggiato industriale
situato nell’omonimo quartiere della città.
Accomunati
da un’attenzione particolare per il processo creativo dell’opera
d’arte, il gruppo della ‘Scuola di San Lorenzo’, che nel senso stretto
del termine non è mai stato tale, ha maturato interessanti percorsi individuali, ora riuniti in una selezione di circa quaranta opere per la mostra La Scuola di san Lorenzo. Una Factory romana organizzata
dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi in collaborazione con Gino
Monti Arte Contemporanea Ancona e curata da Giancarlo Bassotti con il
contributo critico di Marco Tonelli.
Domenico
Bianchi, Bruno Ceccobelli, Giovanni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio,
Piero Pizzi Cannella e Marco Tirelli sono gli artisti che agli inizi
degli anni Ottanta furono identificati dalla critica come gli esponenti
della ‘Scuola di San Lorenzo’ e la celebrazione nazionale e
internazionale, avvenuta nel 1984 con la mostra Ateliers curata da Achille Bonito Oliva nei locali di Via degli Ausoni, a Roma, allora sede di un ex pastificio abbandonato e oggi
Fondazione che porta il nome del pastificio stesso, ne sanciva gli
intenti anti programmatici impedendo ogni sorta di inquadramento
tecnico tout court. Rivendicando la ricerca di
soluzioni nuove da un punto di vista formale, anche nell’uso dei più
disparati materiali, questi artisti si distaccano in maniera netta, e a
tratti polemica, dalla Transavanguardia, all’epoca tendenza
artistica di riferimento per l’ambiente romano. La ricerca sullo spazio,
trattato anch’esso come materiale da modellare, diventa uno degli
elementi costanti nel lavoro di ogni singolo artista già a partire dalla
loro scelta di trasformare in ateliers i vari locali dell’ex pastificio abbandonato: “questi
artisti non si sono identificati con il luogo, ma è proprio
quest’ultimo che li ha identificati e ne è rimasto a suo volta segnato” come afferma la critica Patrizia Ferri.
Collocabili
sulla scia dell’Arte Povera, le cui premesse concepite a Roma, hanno
senz’altro posto le basi per un ambito creativo che predilige il fare, tutti
e sette gli artisti proveniente dalla ‘Scuola di San Lorenzo’
condividono una poetica in grado di riallacciare l’arte con l’esperienza
quotidiana fatta di immagini simboliche riconducibili all’esperienza
intima di ogni artista nel proprio studio, luogo di vita e attività febbrile.
Su questa base le opere di Domenico Bianchi si
contraddistinguono da un segno che è anche il soggetto dell’opera la
cui funzione è quella di generare altre forme aprendosi quindi a
molteplici possibilità di senso. Mentre le tavole di Bruno Ceccobelli
ben esprimono il simbolismo attraverso la creazione di immagini che
rimandano a una narrazione mitologica fatta di segni non codificati. La
pittura di Gianni Dessì è invece uno studio
approfondito sulla tridimensionalità: i suoi dipinti dialogano infatti
con la scultura fino ad alterarne la percezione. Giuseppe Gallo predilige
il confronto con la natura in divenire e così le sue tele ben
rappresentano l’essenza di questo movimento attraverso forme
imprevedibili e in costante movimento. Nunzio, quello che fu definito all’epoca l’unico scultore del gruppo, ancora oggi
lavora sulle possibilità espressive della materia e del suo rapporto
con lo spazio e la luce e, a partire già dalla metà degli anni ’80, ha
iniziato a utilizzare vari materiali come il legno e il ferro e a
sperimentare nuove tecniche come quella della combustione del legno che
ancora oggi caratterizzano la sua produzione artistica. Pietro Pizzi Cannella si
muove tra il disegno e la pittura nel tentativo di abbattere le
barriere tra le due espressioni attraverso un linguaggio privo di
artifici barocchi dove il quotidiano emerge nella sua struggente
semplicità. Astratto e figurativo si fondono invece nelle opere di Marco Tirelli dove la forma e la luce riescono, da sole, a declinare il soggetto in infinite combinazioni.
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